lunedì 21 marzo 2016

L'inesistente eredità del centrodestra. Gianni Pardo

 
 
Per chiunque sia un anticomunista di vecchia data l’ignominiosa liquefazione del centrodestra dovrebbe rappresentare un dolore. Eppure c’è modo di non prendersela. Se l’Italia farà una politica dissennata, insieme a noi ne soffriranno altrettanto quelli che l’avranno voluta. Dunque asciughiamoci le lacrime.
Un tempo, secondo un barbaro codice, i capitani non abbandonavano la nave che affondava. Oggi, anche senza arrivare al comportamento di Francesco Schettino, il capitano giustamente si salva. L’errore di Silvio Berlusconi è stato infatti quello di rimanere sul ponte di comando. Dal 1993 a oggi, con enorme spesa di denaro e di fegato, tutto quello che è riuscito a fare è stato ritardare il naufragio.
Di cuore l’Italia è comunista, oppure cattolica, oppure cattocomunista. E i liberali non li sopporta. Non si spiega diversamente l’universale coalizione contro Berlusconi. Gli stessi infiniti tradimenti che gli sono stati inflitti sono nati non soltanto dal misero e personale interesse, ma anche dall’intima certezza che il centrodestra non avesse futuro. Umberto Bossi addirittura scese dalla nave appena dopo che c’era salito, nientemeno nel 1994. Percepì per primo che i siluri erano troppi perché fosse possibile evitarli.
Ma Berlusconi era uomo di resistenza assolutamente eccezionale e riuscì a sopravvivere. Forse anche perché allora c’erano ancora molti italiani che il comunismo l’avevano conosciuto bene. Tanto che Bossi forse pensò che gli conveniva tornare da lui: ma la tendenza storica che aveva prima intravisto era effettivamente quella giusta. Infatti nel corso del tempo molti altri se ne sono resi conto e hanno sbagliato soltanto il momento della verifica. Così si spiega il comportamento di Gianfranco Fini. Se avesse pensato che Berlusconi poteva ancora resistere, non gli avrebbe fatto la guerra. Doveva per forza essergli chiaro che, se non avesse vinto, gli sarebbe toccata la morte politica. Che è poi ciò che è avvenuto.
L’impazienza di veder tramontare la stella del Capo ha indotto in errore molti politici. Magari quegli stessi che a lui dovevano la loro carriera. E la Nemesi è stata impietosa, sono finiti tutti male. Ma che il principio fosse giusto – cioè che l’Italia non possa essere un Paese liberale – era incontestabile e molti si preparavano al nuovo corso. Anche quelli che non l’hanno tradito in fondo al cuore hanno sperato che il Cavaliere uscisse di scena, o perché ammalato, o perché stanco, o perché eliminato dai magistrati. O infine perché morto, essendo lecito sperare che non sia immortale.
La tendenza si è accentuata dopo lo sgambetto di Matteo Renzi. Prima s’è avuta la defezione di Alfano e compagni i quali, per mantenere i vantaggi del presente, si sono precluso il futuro; più recentemente abbiamo avuto il caso di Verdini e dei suoi amici, i quali sostenendo l’attuale governo chissà che cosa sperano di ottenere. Comunque è chiaro che i topi abbandonano la nave che affonda. Gli ultimi, forse non soltanto cronologicamente, sono Matteo Salvini e Giorgia Meloni. Mentre Berlusconi è sempre più vecchio, sempre più solo, sempre più debole. I figli impazienti forse pensano di essere sul punto di avere finalmente l’eredità del padre. E la realtà potrebbe deluderli più di quanto non pensino.
Tutti sono sempre stati convinti che l’uomo venuto da Arcore sia stato e sia il padrone del centrodestra. Forse non hanno capito che quel raggruppamento Berlusconi non lo domina, lo crea. Cosicché il partito potrebbe sparire insieme con lui e lasciare gli eredi con un palmo di naso. Hanno commesso un parricidio per ereditare e si sono accorti che il patrimonio era lui stesso.
Forse a breve il centrodestra non ci sarà più. Forse l’Italia sarà finalmente di sinistra, e senza contraddittorio. Simile al Venezuela, potrà fare tutte le stupidaggini suicide che vorrà. È vero che stavolta siamo ingabbiati nell’Unione Europea, ma da un lato l’Unione potrebbe scacciarci, dall’altro potremmo noi stessi farla scoppiare. Già oggi Renzi insiste per la “flessibilità”, cioè per fare più debiti, senza pensare che basterebbe allarmare ulteriormente i mercati, perché le Borse ci attacchino veramente, non per un complotto ordito dall’alto, come quello del 2011. Gli investitori internazionali farebbero a gara per recuperare il recuperabile e a quel punto non ci sarebbe rimedio. Dovremmo semplicemente dichiarare bancarotta.
L’Italia vuole andare a sinistra? S’accomodi. Non ci rimane che la Schadenfreude di vedere l’avversario che sbatte il muso. Anche se la cosa danneggia anche noi.
pardonuovo.myblog.it

mercoledì 2 marzo 2016

Il segreto evidente. Davide Giacalone


Ci si eccita allo snudamento di un presunto segreto, salvo abbioccarsi innanzi a ciò che già s’intravedeva ed era evidente. L’ambasciatore americano a Roma, Reginald Bartholomew, nel 1994, avvertiva Washington che la sinistra era pronta a tutto pur di distruggere Silvio Berlusconi e che il presidente della Repubblica, Oscar Luigi Scalfaro, manovrava per far cadere il suo primo governo, detestando la sola idea che potesse mai riuscire a farne un secondo. Chi lo avrebbe mai detto?!
Non ci fossero gli americani a spiarci e studiarci, nonché a scriversi fra di loro, rischieremmo di perdere il filo della storia patria. Non ci fosse la possibilità di evocare un qualche complotto, perderemmo anche l’idea dell’esistenza della politica e della storia. In realtà quelle cose non solo le sapevamo tutti, ma le abbiamo anche scritte e riscritte. Come era solare l’avversità del successore di Scalfaro, Giorgio Napolitano, all’ultimo governo Berlusconi. Ma non ci basta la realtà, non bastano i ripetuti deragliamenti quirinalizi, qui tempestivamente segnalati e descritti, è come se ci sia sempre bisogno di un sovrappiù di fantasia drammatica, talché le cose chiare diventano limpide solo a patto d’intorbidarle e corromperle.
Risale al 1998 un libro di Stanton H. Burnett, politologo e collaboratore del Dipartimento di Stato Usa, in cui si descriveva la natura anomala dell’azione di certi magistrati italiani. Non era un cablogramma segreto, si poteva acquistarlo in libreria. Il titolo è un programma: “The Italian Guillotine”. Né segrete erano le opinioni e le dichiarazione di Antonin Scalia, giudice della Corte suprema Usa, che non si capacitava di come un Paese civile potesse avere una giustizia come la nostra. Mentre in Italia delle toghe si proponevano di “rigirarla come un calzino”, Scalia osservava: ma che ne sanno i giudici di morale? Chi mai vorrebbe un Paese amministrato da giudici? Era inorridito, e lo diceva nel 1993, dal fatto che si potesse arrestare una persona e tenerla finché non “canta”. Considerava un obbrobrio il fatto che accusatori e giudici fossero colleghi. Ha fatto bene Filippo Facci a ricordarlo, in occasione della sua recente scomparsa. Tutta roba pubblica.
Il problema, allora, non è che gli americani avessero l’impressione che la sinistra volesse annientare l’avversario, o che dal Colle le si facesse sponda, perché questo era di un’evidenza disarmante, il problema era ed è che a questo compito si sia dedicato un ordine divenuto potere, con un’inquisizione lunga venti anni. Chi qui scrive non concede nulla all’innocentismo, né al colpevolismo. A me interessa solo che, in questo modo, si strangola la giustizia. Abbiamo anche raccontato la sorte della sentenza di condanna a pena da scontare (e scontata) che colpì Berlusconi: l’estensore di quella sentenza scrisse poi, in una successiva sentenza, che era da considerarsi abnorme, estranea alla consolidata giurisprudenza e da non prendere ad esempio. Non vorrei ci sia bisogno di qualche dispaccio diplomatico segreto, per accorgersi di quel che abbiamo già ampiamente documentato.
Di converso, però, usare tali resoconti per scoprire quel che è scoperto induce taluni a supporre d’essere stati solo prede di trappole occulte. No, perché essi sono i principali artefici della sorte che è toccata loro. Il centro destra ha governato per tre volte (due volte e mezza), ha tenuto aperto un estenuante fronte giudiziario e non ha portato a casa le riforme che riguardano gli italiani tutti. Perché gli altri non volevano, dicono. Certo, funziona così anche nel calcio: quegli undici disgraziati si oppongono alla rete che vorresti. Ma se hai la maggioranza sei responsabile di quel che fai e di quel che non fai. Non votarono contro il governo Dini, votarono a favore di quello Monti e di quello Letta, così come votarono la rielezione di Napolitano. C’erano buone ragioni? Anche, ma la principale della loro debolezza era la loro disomogeneità e rissosità. Il diuturno impegno a farsi le scarpe a vicenda. Le colpe degli altri, insomma, non cancellano le proprie. La storia si racconta dopo molti anni, mentre la si fa, però, è poco saggio imbrogliarsi per i fatti propri.

(LSBlog)


sabato 27 febbraio 2016

Trappole bigotte. Davide Giacalone

Nel giorno in cui le corna omosessuali diventano materia di governo, scattano altre trappole del bigottismo travestito da nuovismo. Per dirne una: gli eterosessuali sono discriminati. La legge, infatti, si riferisce solo ed esclusivamente a coppie composte da persone dello stesso sesso, il che vuole dire che se fai coppia con una persona di sesso diverso, senza sposarti, resta in piedi tutto quello che si dice di volere superare: non puoi delegare l’assistenza, non puoi usare il cognome, non scattano garanzie circa la premorienza di uno dei due, e così via. L’eterosessuale, secondo questo testo bacchettone e bacchettabile, rimane il solo soggetto a doversi o sposare o stare nella terra di nessuno.
E’ comprensibile, del resto, perché se non vi fosse questa discriminazione per gusti e tendenze sessuali ci sarebbe da aspettarsi la sostanziale scomparsa dell’istituto del matrimonio. Già abbondantemente in crisi per i fatti sui. Prendete il problema del mantenimento dell’ex coniuge, o dell’ex unionista, in caso di separazione: al primo devi assicurare il mantenimento dello stesso tenore di vita, sicché se scialacquava in costanza di matrimonio ha diritto a continuare a farlo; al secondo, invece, passi un assegno solo a condizione che “versi in stato di bisogno e non sia in grado di provvedere al proprio mantenimento” (comma 65).
In quanto alla fedeltà, altresì declinabile sotto il segno delle corna, pare che a volerne l’esclusione siano stati quanti erano timorosi d’eccessive somiglianze con il matrimonio. Costoro devono non avere letto il comma 20, secondo cui tutte le disposizioni in cui si legge “coniuge” o “coniugi” si applicano ai contraenti un’unione civile. Estendendolo alla pensione di reversibilità (s’innescherà un poderoso contenzioso giuridico) significa che le unioni non danno luogo a esborso di soldi propri, ma prevedono il ciucciarsi via quelli altrui. Questo nell’era in cui si discetta circa il contenimento della spesa pubblica.
Ricordo agli smemorati, inoltre, che ci siamo tenuti il reato d’adulterio fino al 1968, ma solo in capo alle donne. Il maschio punito non era il marito adultero, ma colui il quale concorreva a fare di lei un’adultera. Roba sopraffina. Nel tempo l’adulterio non è neanche più efficace come causa di separazione per colpa, ma rimane fra i doveri dei coniugi. Fra gli unionisti no, invece. Non che mi scaldi più di tanto, ma ci vedo il segno di un più generale fraintendimento: inseguire i diritti senza doveri è tipico di chi ha in mente un mondo irreale. Oltre che non ammirevole.
L’articolone unico, con 69 comma, rientra nella pratica legislativa che, di tanto in tanto, si considera odiosa e da bloccare. Quelle pagine sono compitate in modo tale che nessuno possa capire quel che c’è scritto, se non dotandosi di codici e riferimenti legislativi. Esattamente come una legge non dovrebbe essere scritta. Agli errori concettuali si sommeranno quelli compilativi. Ma c’è di più: il governo pone la fiducia su un testo proprio, sostitutivo di quello in discussione. Vuol dire che il governo presenta un proprio disegno di legge. Peccato che il quarto comma dell’articolo 87 della Costituzione stabilisca che per fare una cosa simile occorre l’avallo e la firma del presidente della Repubblica. In calce al testo, invece, c’è solo quella del ministro Boschi.
In quanto alle adozioni, segnalo che il testo non è affatto neutro. Abbiamo qui ricordato, nel mentre lo scucuzzamento in materia era ai massimi, che già esiste, da 33 anni, una legge che consente adozioni speciali. L’adozione da parte della matrigna o del patrigno, del resto, è sempre l’adozione da parte di una sola persona, non di una coppia. Tanto la legge esiste, che è stata molte volte applicata, con adozioni in capo a un secondo avente patria potestà che è dello stesso sesso dell’altro esistente. (Non lasciatevi fuorviare dall’ordinanza di rigetto della Corte costituzionale, relativa ad una adozione da parte di due madri: è il giudice di merito che ha impostato le cose in modo sbagliato, sicché il ricorso non è stato bocciato, era inammissibile). Ora, però, il richiamo alle leggi esistenti lo si trova in una legge riguardante le coppie omosessuali. Delle due l’una: o è ultroneo e del tutto inutile, oppure spiana la strada alle adozioni speciali in capo non più a uno, ma a una coppia. Omosessuale. Il diritto ha le sue regole, che si applicano anche quando il legislatore pensa in modo storto.

venerdì 26 febbraio 2016

Panebianco: il pensiero libero e la tristezza di quegli slogan. Angelo Panebianco




È difficile tentare di trarre qualche insegnamento generale da vicende nelle quali siamo coinvolti personalmente. Manca inevitabilmente la serenità e c’è sempre il rischio che l’emotività ci prenda la mano, ci tolga lucidità. Tengo corsi all’Università di Bologna dal 1976. Per la prima volta in vita mia, e per due volte di seguito, c’è stato il tentativo di pochi aderenti a gruppuscoli politici di impedirmi di fare lezione. Il tentativo è fallito grazie alla ferma e indignata reazione dei miei studenti che erano venuti lì per seguire il corso. In ogni caso, quei gruppuscoli hanno ottenuto la pubblicità di cui erano alla ricerca. Questi eventi mi hanno scosso (anche se non intimidito). È molto sgradevole sentirsi dare dell’assassino, del guerrafondaio, di quello che specula sui morti ammazzati. Ed è patetico (e anche triste) sentire slogan e vedere cartelli con sopra scritto «fuori i baroni della guerra dall’Università». Patetico, perché costoro nemmeno sospettano quanta muffa e quante ragnatele ci siano in quegli slogan.
Inizio con qualche osservazione di carattere generale sul rapporto fra estremismo politico e democrazia. La democrazia è un regime molto fragile, che si regge sul fatto che in ogni momento (il che non è affatto scontato) la moderazione politica — nel senso in cui l’intendeva Montesquieu — prevalga sull’estremismo. Se riescono a imporsi quelli che considerano l’altro un nemico anziché un avversario, allora la democrazia è agonizzante. Si tenga presente che la democrazia (qualunque altra cosa essa sia) è prima di tutto e soprattutto un regime politico che, a differenza di tutti gli altri, risolve pacificamente le proprie dispute interne, e pacificamente (con il voto) sostituisce i governanti di cui gli elettori siano insoddisfatti. Se e quando prevale l’estremismo queste condizioni svaniscono. Ciò non significa affatto naturalmente che nelle democrazie più consolidate siano assenti correnti estreme. È normale e fisiologico che ci siano, senza che per questo la democrazia sia minacciata. Che quelle correnti diventino oppure no pericolose dipende da un insieme di condizioni (che non è sempre facile individuare). Possiamo forse limitarci a dire che nei momenti in cui (per esempio, a causa di prolungate crisi economiche o di cambiamenti radicali nel quadro politico internazionale), si diffondono ansia, paura e insicurezza, allora c’è il rischio che quelle correnti si ingrossino. Ma ciò non basta.
Gli anni Settanta e oggi
Occorre anche che l’estremismo sia sospinto da una cultura diffusa che ne legittima le azioni. Qui si colgono alcune differenze, ad esempio, fra l’Italia degli anni Settanta, gli anni che sfociarono nel terrorismo, e l’Italia di oggi. Allora c’era una cultura diffusa che legittimava la «rivoluzione» e un gran numero di cattivi maestri che dicevano a certi giovani «vai avanti tu». Oggi quella cultura diffusa non c’è più e anche i cattivi maestri si sono dileguati (qualcuno, per la verità, ancora c’è: un amico mi ha mandato copia di un articolo scritto da un «collega» — sic — che inneggia al manipolo di eroi venuti da me per impedirmi di parlare). Se questo è per noi italiani il vantaggio dell’oggi rispetto agli anni Settanta, occorre dire che c’è anche una differenza di opposto segno: negli anni Settanta c’era la guerra fredda, e quindi un quadro internazionale stabile. Oggi (con l’Europa a pezzi e il Medio Oriente in ebollizione) siamo in un’altra condizione. Si dileguano uno dopo l’altro gli antichi punti di riferimento, e paura, ansia e insicurezza inevitabilmente si diffondono. C’è un corollario importante e che, incidentalmente, riguarda proprio il mestiere di chi scrive: la questione della libertà di insegnamento. Solo le democrazie la tutelano. Quando è il governo a colpirla significa che la democrazia è finita. Ma spesso è accaduto nella storia delle democrazie che quella libertà sia stata, qua e là, aggredita dal basso. Quasi sempre le democrazie riescono ad arginare il fenomeno. Qualche volta non ci riescono e ne pagano il prezzo.
I perché dell’estremismo
Un altro insegnamento di carattere generale riguarda il perché dell’estremismo politico: perché ci sono persone che si rinchiudono volontariamente in quella prigione mentale costruita su frasi fatte e vuote, su truci e insensati slogan, su urla che devono nascondere agli occhi degli altri l’evidente paura del mondo che prova colui che grida? I percorsi individuali che portano verso l’estremismo sono i più vari e spetta agli psicologi esaminarli. Qui posso solo osservare che la politica è il luogo per eccellenza nel quale paure e frustrazioni individuali possono trovare una valvola di sfogo: un’aggressività verso l’altro che non si autogiustificasse con argomenti «politici» apparirebbe agli stessi occhi di chi pone in essere il comportamento aggressivo, come moralmente poco sostenibile. Invece, un’aggressività che si pretende guidata da motivi politici rende possibile l’illusione che si tratti di un comportamento «nobile», guidato da alti ideali morali. La politica è, da sempre, il ricettacolo e la calamita di frustrazioni personali che vi cercano una qualche forma di legittimità la quale, a sua volta, serva a giustificare odio e aggressività.
Il ‘68 per noi non è durato un anno ma un decennio
C’è poi un’osservazione che si può fare sul caso italiano, sulla nostra democrazia difficile. In un articolo che scrissi per il Corriere nel 1993, in occasione del venticinquennale del ’68 e che ho riletto proprio in questa circostanza, mi chiedevo come mai il ’68 fosse stato un anno di moti studenteschi in quasi tutto il mondo occidentale , salvo che in Italia. In Italia il ’68 non fu un semplice «anno»: fu invece un decennio che si concluse solo nel 1978 con il rapimento e l’uccisione di Aldo Moro, quando la rivoluzione immaginaria e parolaia finì e arrivarono quelli che facevano sul serio. C’è sicuramente qualcosa di speciale nella cultura politica italiana — sulla quale gli storici del futuro dovranno lavorare a lungo — che può spiegare questa anomalia. Qualche cascame o residuo di quell’interminabile decennio è ancora tra noi.
La cultura della sicurezza
Sono costretto — spero che i lettori del Corriere mi perdoneranno — a concludere questo articolo con qualche osservazione che mi riguarda direttamente. Contrariamente a quanto mi urlavano in faccia i giovanotti del collettivo sventolandomi sotto il naso un mio articolo sulla Libia, io non ho mai inneggiato alla guerra (solo i pazzi possono farlo). Io ho lamentato l’assenza di una cultura della sicurezza (e quindi della difesa da minacce esterne) in un Paese che per un cinquantennio si è potuto permettere il lusso di non disporne. Si tratta, dicevo, di una assenza particolarmente grave oggi, data una situazione che quasi certamente spingerà, sotto l’egida delle Nazioni Unite, una coalizione di Paesi di cui faremo parte, a tentare di stabilizzare la Libia, bloccando il pericolo mortale per tutti noi rappresentato dallo Stato islamico. Né ho giustificato la guerra quando ho scritto, a proposito di Europa, che le unificazioni politiche avvengono quando ci si difende da pericoli esterni. Era una constatazione di fatto, basata sull’evidenza storica. Distinguere fra giudizi di fatto e giudizi di valore non è evidentemente una cosa alla portata di tutte le menti.
Un solido muro a difesa del libero pensiero
Ma non è tanto la grossolana falsificazione delle tesi che ho espresso sul Corriere che mi preme rintuzzare. La cosa che mi ha dato più fastidio di questa faccenda è un’altra. Questi individui si sono permessi di mettere in discussione la mia integrità professionale. Io tengo corsi di scienza politica (con varie denominazioni) da un gran numero di anni. A dispetto del titolo della materia che insegno, sono particolarmente fiero del fatto che mai mi è scappato un commento politico di fronte agli studenti. Poche cose sono in grado di scandalizzarmi. Una delle poche che mi scandalizza, e anzi mi indigna, è venire a sapere (come qualche volta mi è accaduto nel corso degli anni) di professori che approfittano dell’aula, e dell’autorità propria del ruolo che esercitano, per cercare di influenzare politicamente gli studenti. Ho imparato dai miei maestri, ai quali sono grato, a trattare con la massima obiettività possibile (il massimo di obiettività umanamente possibile) gli argomenti teorici che si devono affrontare in corsi come quelli che tengo io. E ne sono orgoglioso. Poi ci sono le frasi fatte: non bisogna farsi intimidire, eccetera, eccetera. I tentativi di intimidazione riescono alla grande (se ne aggredisce uno e, in questo modo, in un solo colpo, si riesce a intimidirne mille) se gli intimidatori e gli aspiranti tali non si trovano di fronte a un solido muro eretto a difesa del libero pensiero.
(Corriere della Sera)

giovedì 25 febbraio 2016

Trump spiegato agli intellò. Maria Giovanna Maglie



In South Carolina e in Nevada Trump vince, e vince bene, hai voglia a ricordare che sarebbe una ferita perché si tratta dei primi Stati del Sud, perché in Sud Carolina c’è un governatore indiano e pure l’unico senatore nero repubblicano, perché insomma l’immagine di Stato moderato sarebbe appannata per sempre. Questo tipo di ragionamento, molto sostenuto sui giornaloni americani, contiene una contraddizione formale e sostanziale, o più semplicemente è una fesseria, perché se i repubblicani moderati di Charleston e dintorni votano per Trump, nonostante il candidato con l’aureola sia Rubio, nonostante Jeb Bush abbia scongelato suo fratello, il grande George W, vuol dire che non gliene importa una granché di perdere l’aura di moderati.
Ma è inutile stupirsi perché l’intera campagna è arrotolata, avvinghiata, quasi paralizzata nel falso pretestuoso tema del personaggio improponibile che però procede spedito. Quando si fa così, si rinuncia a capire e raccontare. Non vale solo per inviati e pensosi commentatori italiani, vale per tutti, basta pensare che gli Huffington Post si sono, al pari del Foglio, proposti di trattarlo come un elemento di intrattenimento, e ora annaspano, che il New York Times e il Washington Post hanno dovuto fare pubblica ammenda sulla forza del candidato Trump, ma che si sono anche prestati ad endorsement a Hillary Clinton che di solito si scrivono a ottobre, non a gennaio. Campagna eccezionale, quella del 2016, come un’annata di vini speciale, saltano tappi di conformismo, politically correct, brutture buoniste dell’era Obama.
Quanti voti avrà portato Bergoglio con le sue sparate al candidato Donald Trump? Molti, a giudicare dall’imbarazzo dei candidati repubblicani etichettati come buoni dall’establishment e dai media nazionali ed internazionali, ovvero Jeb Bush e Marco Rubio, ambedue cattolici, i quali, al pari dell’altro candidato repubblicano radicale, il cattivo numero due, Ted Cruz, obtorto collo hanno dovuto dichiarare che “«Rispetto l’opinione del Papa, ma noi dobbiamo trovare il modo di controllare i nostri confini», e «Nutro enorme ammirazione per il Papa. Detto questo il Vaticano ha il diritto di controllare i suoi confini e lo stesso diritto lo hanno gli Stati Uniti».
Non meriterebbero ancora tanta attenzione le dichiarazioni a ruota libera del pontefice, non fosse che denotano che Bergoglio ignora davvero, come già si era intuito nel viaggio a Washington, che cosa e come siano gli Stati Uniti, oppure che se ne infischia. Nell’attaccare all’arma bianca un candidato, tra l’altro contrario all’aborto, etichettandolo come non cristiano, perché “non si alzano muri ma ponti”, ha ottenuto di dargli ulteriore visibilità e spazio politico, gli ha consentito di rispondere duramente senza paura, ha infastidito quel settantacinque per cento almeno di americani non cattolici, ha obbligato gli avversari che lo colpivano sotto la cintura a ostentare solidarietà, ha messo in serio imbarazzo i cattolici americani che sono un po’ diversi dallo stereotipo, perché, dati della General Social Survey del 2014, favorevoli alla pena di morte al 62 per cento, all’aborto senza alcuna restrizione al 40 per cento, alle unioni omosessuali al 55 per cento. Obiettano alcuni gesuiti che ci sono i cattolici ispanici, linfa nuova e ben più tradizionalista; troppo vero, tant’è che sui loro giornali ieri si chiedevano come fosse possibile al Papa abbracciare e lodare Raul Castro a Cuba, ovvero la faccia di un regime che perseguita oppositori, suore, preti e chiude le scuole cattoliche, ritenendo quello un buon cristiano e Donald Trump un non cristiano. La conclusione del siparietto? Decine di articoli sulle mura del Vaticano, altrettanti sulle dichiarazioni di solidarietà degli avversari, alla fine il vero estremista per tutti è l’altro, è Bergoglio.
Riusciranno la disapprovazione congiunta del partito repubblicano e del mondo a fermare la corsa di Donald Trump? Lo scopriremo solo vivendo il grande spettacolo delle primarie, almeno fino al Big Tuesday, il giorno in cui un truppone di Stati vota insieme (poi si vota a raffica nei giorni seguenti fino al 14 giugno), quando dovremmo poter dire la parola definitiva sulle aspirazioni del miliardario di New York, la cui affermazione contro tutto e tutti è già l’evento più importante delle elezioni del 2016, comunque vada a finire.
Prometto, ma non so se sarò in grado di mantenere la promessa, che tenterò di ripetere il meno possibile quel “ve l’avevo detto” da grillo parlante, che rende antipatico chiunque abbia avuto per tempo l’intuizione da osservatore, senza paraocchi né birignao, del fenomeno. Non ero sola, eravamo in parecchi inascoltati. Come Larry Sabato, fondatore e direttore del Center for Politics della University of Virginia «In questa campagna elettorale Trump è importante perché rappresenta la rabbia intensa e l’alienazione di grandi segmenti del suo partito. Odiano Obama, i loro stessi leader, l’immigrazione illegale e un sacco di altre cose. Trump dà una voce a tutto questo». Non sono cittadini di poco conto, è la grande classe media e conservatrice americana bianca, stremata dagli strascichi di una crisi che non è finita, delusa da qualsiasi politico di professione, che vede in Trump uno che non li sfrutterebbe perché è già ricco a non finire di suo.
Ma guai a credere che sia l’unico richiamo. Come ha scritto Frank Rich, editorialista del New York Magazine, la capacità e lo studio del palcoscenico sono la cosa migliore accaduta alla politica americana dall’elezione di Obama nel 2008, e hanno riavvicinato il pubblico alla contesa elettorale. «In breve tempo», scrive Rich, «ha fatto un grande servizio esponendo, seppur approssimativamente e a volte anche inavvertitamente, gli atteggiamenti errati di entrambi i partiti, oltre che l’insensatezza e il declino della cultura politica che condividono». Secondo Rich, Trump assomiglia ai personaggi di Mark Twain, sarà anche un buffone, come scrivono le Huffington e i Giuliano Ferrara, per dirne due, ma quel tipo di buffone che decide di far saltare il sistema, e studia allo specchio le dichiarazioni bizzarre e i comportamenti rozzi con l’aiuto di un quarantenne, Corey Lewandowski, ovvero uno stratega eccezionale di campagne elettorali, formidabile lobbista, che è stato nascosto nei primi mesi perché Trump doveva sembrare libero dalle tecniche della vecchia politica, ma ora è uscito allo scoperto, perché il buffone deve ora presentarsi anche come politico sensato e vincente.
Che poi il buffone possiede miliardi di dollari e una torre grattacielo col suo nome quasi in ogni capitale, una vodka, una rivista, un’agenzia di viaggi, due o tre libri venduti in milioni di copie, una trasmissione, The Apprentice, copiata in tutte le tv del mondo, un busto di Reagan in ufficio, e nessuno gli ha regalato niente, né lui intende scusarsi della sua ricchezza. Ha 69 anni ostentati, una terza o quarta moglie strafica, figli bellissimi che lavorano con lui, e si capisce l’invidia del mondo, un po’ meno quella degli americani cresciuti a finanza squalo quando va male, a “life liberty and the pursuit of happiness”, quando va bene; figuriamoci il fastidio dei berlusconiani italici, a meno di un problema di conflitto tra parrucchini e trapianti di capelli.
“Revolution” la chiama giustamente quel vecchio furbone di Matt Drudge dal suo ormai storico sito di news, Drudgereport, perché Donal Trump vince solidamente, alla faccia degli snob americani ed europei. Il pupillo del partito, Marco Rubio, uno bravo, è sembrato fino ad oggi ingessato e non convincente, obbligato dai capataz del Gop, che detestano tanto Trump che Ted Cruz, a sembrare moderato e pronto ad accordi con i meno liberal tra i democratici. E’ come se il politically correct che pure permea la nazione in modo trasversale e vittorioso, si rivoltasse contro gli stessi che lo hanno seminato e fatto crescere, e che ora vogliono rabbiosamente sentir dire che l’avversario, ma anche l’alleato troppo per bene, “is a pussy”, è una fica lessa, come è successo a proposito di Rubio in un recente comizio di Trump.
Niente dei vecchi cliches sembra più funzionare, e il fantasma di Reagan aleggia sui possibili imbrogli di una convention che a luglio a Cleveland potrebbe, se Trump non avrà vittorie schiaccianti in Texas e California, ricorrere a una nomination taroccata, come accadde per Gerald Ford contro Reagan nel 1976. Ford perse malamente con Carter, nell’80 non ci provarono più a ostacolare Ronald. Nel ’76 sapete che cosa dicevano proprio i repubblicani del governatore della California venuto dal cinema? “Sì, vabbé, Reagan presidente e vice Jerry Lewis”. E’ un mostro nuovo l’elettorato nel 2016, osservatelo con attenzione, la classe media bianca, che sempre si è sentita la maggioranza della nazione, la guida generosa e illuminata, aperta al nuovo e diverso, al melting pot, e ora è allo sbando, non solo economicamente, soprattutto culturalmente, nell’identità, e si rivolge a chi coglie la sua esasperazione, il suo estremo, da una parte e dall’altra.
Cito ancora una volta da Rusty Reno, direttore di First Things, perché ha dato corpo ai miei pensieri: “Se questi candidati (Trump e il democratico Sanders che sta spaventando a morte Hillary Clinton) hanno un’attrattiva è perché negli ultimi decenni le nostre élite politiche, esse stesse quasi interamente bianche, hanno deciso, per ragioni diverse, che la classe media bianca non ha alcun ruolo da giocare nel futuro multiculturale e globalizzato che immaginano, un futuro che credono di guidare. Questa stagione di primarie mostrerà se hanno ragione oppure no”. La borghesia europea e italiana è forse meno disillusa e smarrita?
(l'Intraprendente)


Intercettazioni anti-Cav. Perché ora lo scandalo. Mauro Mellini


Le notizie circa le intercettazioni “americane” delle telefonate di Berlusconi, Presidente del Consiglio, non mi sorprendono affatto. Così come non mi sorprende troppo il clamore, più che giusto, ma “stranamente” lasciato crescere e divulgare, levatosi anche da parte di chi considerava e considera qualunque malefatta da chiunque compiuta, in danno di Berlusconi, di Forza Italia, del Centrodestra e di chi non è “allineato” con il Partito dei Magistrati, con il Centrosinistra e loro satelliti, una specie di “atto dovuto”.
Non mi meraviglia troppo che anche gli Americani abbiano ritenuto opportuno prendere delle “precauzioni”, con quelle intercettazioni, ma non solo con quelle, nei confronti di un personaggio nei confronti del quale i magistrati del suo Paese, con il quale essi dovevano avere a che fare perché alleati (si fa per dire) con lo Stato da lui rappresentato avevano aperto un concorso a premi per chi la sparasse più grossa, facendo risultare dal loro “obiettivo ed imparziale” darsi da fare, che si trattava di un malfattore pericoloso, un maniaco sessuale, un facile destinatario di intimidazioni e di ricatti.
Detto questo è persino superfluo ricordare che tutto l’apparato della demonizzazione di Berlusconi, non solo quello mediatico, ma anche quello “istituzionale” (si fa sempre per dire) sin dal giorno in cui per la prima volta egli aveva messo piede a Palazzo Chigi, avevano fatto di tutto e di più per screditarlo all’estero ancor più che in Italia, dove a lungo i colpi della Magistratura-Partito e dei suoi alleati e tirapiedi, sembravano non avessero ottenuto troppo successo nel manipolargli l’elettorato.
Non condannerei nessuno (perché sono garantista) per tutta la serie di reati contro la personalità dello Stato commessi aizzando contro Berlusconi, ed il Governo Italiano da lui rappresentato, stampa, opinione pubblica, Governi e, naturalmente e di conseguenza, Servizi più o meno Segreti stranieri (da quelli italiani ci guardi Iddio) ma non è certo una stravaganza pensare che un’intensa, pertinace e, quindi, costosa azione sia stata compiuta a tutti i livelli e dai più diversi ambienti italiani per “demolire” all’Estero la figura ed il ruolo politico-istituzionale di Silvio Berlusconi.
Ma a tutto ciò deve aggiungersi un interrogativo e la risposta che ad essa deve essere data e che non mi sembra possa avere troppi margini di incertezze. Ho l’impressione che la mia diffidenza ed antipatia per le teorie dei “complotti” non mi possano indurre a modificare la convinzione che oggi, a consentire ed accendere il clamore delle rivelazioni sulle interferenze “americane” dal 2011, sul ruolo e sugli obiettivi di Wikileaks e quant’altro, siano gli stessi, cioè quelli della stessa parte politica (almeno per ciò che riguardo l’Italia) che allora si abbandonavano all’orgia di demonizzazione del “mostro” Berlusconi.
Perché? Perché c’è un proverbio che ha un valore da non dimenticare. “Chiodo scaccia chiodo”. Non sono un giudice e nemmeno un P.M. e, quindi, posso, senza ridurmi come certi P.M. palermitani a coltivare curiosità per il “gradimento” che taluno abbia per certi avvenimenti, ciò senza violare nessun dovere impostomi dal codice e dalla ragione (e senza meritare, naturalmente, del che me ne infischio, nemmeno la cittadinanza onoraria di Roccacannuccia). Tale curiosità per gli eventi politici italiani e per il “gradimento” che fatti che vengono, si fa per dire, alla luce, trovano da parte, che so, di un Renzi, mi porta a ritenere come assai probabile che, mentre sembra che da parte dei Potentati d’Europa stia maturando una crescente insofferenza per Renzi ed il suo chiacchiericcio un po’ euroscettico, quest’ultimo consideri un certo clamore (che, poi, è tutt’altro che eccessivo) per altre interferenze, arrivate ai maneggi ed ai marchingegni dei Servizi più o meno Segreti, compiuti in un recente passato in danno di un diverso personaggio che tuttora rappresenta il più rilevante antagonista di Renzi.
In altre parole: Renzi (o chi per lui) ritiene di poter usufruire a proprio vantaggio delle reazioni che l’intervento straniero, messo in atto un po’ grossolanamente dagli Americani (per non parlare di Tedeschi, Francesi etc.) per “liberarsi di quel suo predecessore ed antagonista” (dico “grossolanamente”, perché se a qualcuno servivano le intercettazioni di Berlusconi e non il fatto in sé di effettuarle e di farlo sapere, avrebbe potuto disporne in abbondanza tra quelle effettuate, più o meno ufficialmente, disponibili sul mercato giudiziario).
Il tutto potrebbe servire a smentire un altro proverbio “chi la fa se l’aspetti”. C’è sempre chi la fa e continua a farla e chi deve sempre aspettarsela. Ma sarebbe bene che, almeno, chi se la aspetta e se l’è sempre aspettata, non debba, suo malgrado, fare anche un favore a chi glie la fa.
Lasciando che certe malefatte appaiano “normali”.

martedì 16 febbraio 2016

Pil e contropil. Davide Giacalone


A forza di annunciare e lisciare il pil irreale è arrivato il contropil brutale. Correggendo i dati con il calendario, la crescita del 2015 s’inchioda allo 0.6%. Hai voglia a dire che non ci si deve attaccare agli zerovirgola, quel dato dice che non è nemmeno vero che siamo usciti dalla recessione. E’ vero, infatti, dal punto di vista formale, ed è un bene, naturalmente, ma tolto l’effetto espansivo della politica monetaria, praticata dalla Banca centrale europea, resta un misero 0.1%. La crescita, inoltre, è andata costantemente rallentando nel 2015, sicché questo si riflette sull’anno in corso, avvertendo che i dati posti a fondamento dei conti pubblici devono essere rivisti. Non serve a nulla buttarla in caciara, gonfiare le gote e sperare di far credere ai beoti che la colpa è sempre di qualcun altro. I dati urlano che si deve cambiare strada.

Quello 0.1% di crescita l’abbiamo arpionato nell’anno in cui la spesa pubblica è cresciuta, anche mettendo soldi nelle buste paga di molti lavoratori. Nel conto, insomma, ci sono anche gli 80 euro, come ci sono i centomila assunti nella pubblica amministrazione, la decontribuzione per i nuovi contratti di lavoro (gennaio 2015) e il jobs act (marzo 2015). I posti di lavoro creati con la decontribuzione sono costati 150mila euro a lavoratore. Già il costo di tutta questa roba, che una volta iniettato nel mercato si contabilizza nel prodotto interno lordo, supera quel superstite 0.1% non dovuto alla Bce. Quindi, anche senza sottrarre l’effetto del basso costo del petrolio e del deprezzamento dell’euro, il saldo è recessivo.

Quel che ha veramente fatto crescere il pil, invece, senza effetti botox e silicone, sono le esportazioni. Su questo fronte solo il più favorevole cambio dell’euro è stato d’aiuto, per il resto si deve tutto al lavoro di 20mila aziende, cui se ne sommano altre 60mila, esportatrici meno assidue. Se si governasse la spesa pubblica avendo in mente i bisogni di quel mondo, l’Italia andrebbe assai più forte, invece la si amministra nell’intento di cambiare il meno possibile e lucrare elettoralmente il più possibile. Non si tratta di una condotta riprovevole perché egoista, ma perché cieca. Quei dati dell’Istat sono la contabilizzazione di quel che qui non ci siamo stancati di ripetere: si sta buttando via il tempo che la Bce compra. Un anno se ne è andato, con i risultati che si vedono. Il secondo è appena cominciato, con una previsione di crescita che, al momento, non è alla portata della realtà.

Il cavallo potrebbe essere frustato, ma la dottrina in voga consiste nel frustare il ciuco morto. Al governo sono convinti che la spesa pubblica sia in grado di spingere i consumi, perché basta mettere dei soldi in più nella busta paga e il destinatario correrà a spenderli. Calcolo sbagliato, primo perché i soldi messi in busta, senza che corrisponda un pari (meglio se superiore) incremento di produttività, comportano un impoverimento del pagatore. Se si tratta dello Stato (è sempre quello, del resto), comporta un impoverimento collettivo. Secondo, perché le mamme che trovano 80 euro in più non corrono a spassarsela, come suppose il governante che mai lavorò nella vita, ma risparmiano. Mentre i bonus a cappero, vuoi per la cultura vuoi per il compleanno, aumentano la spesa aumentando anche l’idea che ci sia ancora ciccia da portare via, rendite da conquistare, liquidi da ciucciare. Inducendo a tutto, insomma, tranne che a lavorare e/o rischiare. Sono frustate al ciuco morto.

Mentre il mondo produttivo lo si lascia a soffrire, magari osservando, con il fare falso colto e il dire dell’incolto, che “il cavallo non beve”. Ovvero: il credito ci sarebbe, ma non lo prendono. Perché le banche hanno bisogno di sicurezze, che chi galoppa e suda non riesce a dare, e perché il cavallo è stato legato al ramo alto dell’albero burocratico e fiscale: all’acqua non ci arriva, sicché non bene pur soffrendo l’arsura. Togliete le briglie a quel cavallo, dategli le frustate riservate al somaro trapassato, e anche il numero del pil si muoverà in maniera meno impercettibile.

Ma chi glielo spiega ai cultori dei bonus a nulla? E’ così bello governare illudendo i diciottenni che si abbiano dei diritti a riscuotere sol perché si è nati diciotto anni prima. E i conti che non tornano? Poco male, si dirà al volgo che il rigore europeo ci sta strangolando. Che, se fosse vero, almeno mi farebbe passare la voglia di farlo io.

www.davidegiacalone.it


giovedì 11 febbraio 2016

La supremazia rossa dalla politica fino al cimitero. Nicola Porro


Ogni morto ha la sua storia e merita il nostro massimo rispetto. Ma per i nostri media c’è qualche morto che vale di più

C’è poco da fare, passano gli anni, nel Pd arriva un cattolico come Matteo Renzi, eppure la supremazia culturale, intellettuale della sinistra non morirà mai.
Rita Fossaceca era un medico molisano che lavorava in un ospedale a Novara. Ogni anno dedicava le sue vacanze a un orfanotrofio in Africa. Alla fine dell’anno scorso è stata barbaramente uccisa, con un machete, a due passi da Malindi. Rita era profondamente cattolica, era il segno della sua attività. Nessuno, o pochissimi, l’hanno ricordata. Un cattolico che muore tragicamente in Africa, interessa poco. Valeria Solesin è morta invece a un concerto, quello del Bataclan. Per lei funerali e media da prima pagina. Per Giulio Regeni, barbaramente torturato al Cairo, inchieste, prime pagine ovviamente, e cordoglio delle massime autorità dello Stato. Ogni morto ha la sua storia e merita il nostro massimo rispetto. Ma per i nostri media c’è qualche morto che vale di più. È orribile pensare che, in un’ipotetica e cinica scala dei valori, un «morto impegnato» valga più di un morto cattolico. Ma così è. E tutti appresso.La supremazia culturale della sinistra si manifesta clamorosamente nelle primarie di Milano. Vedete, si può parlare per ore dell’incredibile partecipazione cinese. Ma il punto è un altro. Tutta la Milano che conta è transitata in queste ore nelle sedi del Pd. Professionisti altrimenti riservati, signore della prima cerchia, banchieri, giornalisti, opinionisti, cantanti in fila per Sala o la Balzani. Gli stessi che si vergognerebbero di essere associati a qualunque altro ambiente politico, si fanno fotografare mentre certificano il fatto di essere non solo di sinistra, ma di aderire al programma del Pd. E, per di più, con un’alzata di spalle liquidano chi ricorda loro la brutta scena di una fila così taroccata. Lo possono fare, anche se in fila stanno con i cinesi: perché quello di sinistra è un marchio che funziona, che non ti sporca, non ti impegna. E ti fornisce quel formidabile passepartout che, se qualcuno la fa grossa, è pur sempre «un compagno che sbaglia». Signori, la sinistra funziona sempre. Prendete Brindisi. Arrestano un sindaco del Pd e tutti si affrettano a dire che si era autosospeso. Embè? Dove sono finiti gli indignati per il presunto scandalo di Quarto, dove il sindaco grillino semmai è stata vittima di un ricatto? Essere di sinistra, purtroppo, oggi in Italia aiuta ancora. È meglio che la «destra torni nelle fogne», come ha recentemente detto Ignazio Marino.

(il Giornale)